di Osvaldo Sponzilli

È sconcertante constatare che all’inizio del terzo millennio la medicina ragioni ancora per compartimenti stagni, non si abbia cioè una visione complessiva dell’essere umano come unità psicobiologica. Nonostante che, già negli anni ’70, un neuropsichiatra disse che i medici studiavano corpi senza testa, mentre loro, gli psichiatri, una testa senza il corpo.  Era Paolo Pancheri divenuto famoso per aver introdotto la psico-neuro-immuno-endocrinologia, una disciplina ora molto studiata, ma poco applicata in medicina, che correla lo stress con le risposte del sistema immunitario ed ormonale.  Dovremo aspettare gli anni ‘90 per un’altra grande rivoluzione, la Medicina di Genere.

Fu la cardiologa americana Bernardine Patricia Healy, prima donna a divenire Direttrice dell’Istituto Nazionale della Salute (NIH) negli Stati Uniti, ad introdurre appunto la medicina di genere con un famoso editoriale sul New England Journal of Medicin, che suscitò molto scalpore in tutto il mondo. Fu usato il nome “Yentl Sindrome” per segnalare il comportamento discriminante riservato alle donne nel suo reparto di cardiologia. Yentl era l’eroina di una storia del Premio Nobel Isaac B. Singer, la quale per studiare i testi sacri ed accedere alla scuola ebraica dovette rasarsi i capelli e vestirsi da uomo. Nell’articolo si evidenziava che le donne erano meno ospedalizzate, meno sottoposte a coronarografie, ad interventi come stent e bypass rispetto agli uomini e vittime di maggiori errori diagnostici rispetto al sesso maschile; cosa ancora più grave le donne erano ignorate nelle sperimentazioni cliniche sui nuovi farmaci e nelle tecnologie diagnostiche e terapeutiche innovative. La maggior parte delle linee guida codificate erano ottenute da sperimentazioni condotte quasi esclusivamente su un solo sesso, quello maschile.

L’articolo lanciò la Medicina di Genere (MG) e le diede forza.

In quegli stessi anni i giapponesi descrissero una sindrome cardiaca prettamente femminile, e quindi ascrivibile alla medicina di genere, oggi conosciuta come sindrome del cuore infranto. Stiamo parlando di una cardiomiopatia da stress che simula un infarto dovuta a una delusione affettiva o comunque a un trauma non elaborato, una rottura, una ferita emozionale che interrompe la continuità psichica del soggetto minacciando di frammentare la sua coesione mentale in quanto difficilmente integrabile nel proprio sistema psichico. La donna affetta da questa sindrome presenta i segni di un vero e proprio infarto cardiaco, ma senza occlusioni coronariche, ischemia o interruzioni di flusso di sangue al cuore.

Cosa accade: il cuore assume la forma di un palloncino per una modificazione transitoria dell’apice ventricolare sinistro, dovuta a stimoli di origine nervosa. Questa deformazione, visibile con le tecniche di imaging come l’ecocardiografia o la risonanza magnetica, fa assumere al ventricolo sinistro la forma di un cestello come quello usato dai pescatori giapponesi per la pesca (tsubo) del polpo (tako), di qui il nome di sindrome di tako-tsubo. L’apice del cuore si blocca mentre la parte inferiore si contrae in maniera eccessiva, in questo modo il sangue fa più fatica ad essere espulso dal ventricolo sinistro.

La sopravvivenza a un attacco di sindrome tako-tsubo è solitamente alta (96% dei pazienti) anche se alcuni studi sottolineano la pericolosità di questa patologia per le complicanze quali arresto cardiaco, insufficienza cardiaca, aritmia ventricolare e rottura di cuore.

Lo stress acuto responsabile della sindrome è riportabile a trauma da perdita sia affettivo (morti improvvise, delusioni ecc.) che materiale (terremoti) che porta a una disfunzione del microcircolo mediata dalle catecolamine con iperattività del sistema simpatico che contribuisce a una disfunzione microvascolare predisponente a una minore riserva di sangue da immettere in circolo. Il motivo per cui la disfunzione miocardica si localizza all’apice del ventricolo sinistro potrebbe spiegarsi con la maggior presenza di recettori adrenergici in questa zona rispetto alla base. Il mondo medico deve interrogarsi su tutto questo e comprendere che l’uguaglianza dei diritti deve trovare una collocazione anche nella capacità di valutare le patologie secondo il genere, riconoscendo pari importanza a prescindere dal genere che colpisce. Il connubio tra la Medicina di Genere e la sindrome del cuore infranto mostra l’importanza che occorre dare in medicina all’intero sistema mente corpo, come si diceva all’inizio dell’articolo. È solo l’inizio, molto deve ancora accadere.