La redazione

La Fondazione Giancarlo Quarta Onlus in collaborazione con l’Università degli Studi di Padova e il Padova Neuroscience Center (Pnc) hanno presentato a Milano la seconda fase di uno studio chiamato “progetto F.I.O.R.E.” ( Functional Imaging of Reinforcement Effects ) finalizzato a verificare l’influenza della parola sulla fisiologia del cervello e focalizzato sulla relazione medico-paziente. In questo studio si è evidenziato cosa succede a livello neurale quando la comunicazione medico-paziente viene attivata, sia in senso positivo che negativo (placebo/nocebo). Una buona e positiva relazione terapeutica può essere messa in relazione a quello che viene chiamato effetto placebo, al contrario, una cattiva relazione terapeutica a quello che viene chiamato effetto nocebo. Studiando con i metodi di neuroimaging quello che succede nel cervello dei pazienti si scopre una cosa sorprendente: credere in una terapia e l’aspettarsi da essa un beneficio, attiva gli stessi meccanismi biochimici messi in azione dai farmaci.

Il solo aspettarsi un miglioramento clinico sommato all’interazione col proprio terapeuta accende alcune regioni cerebrali, le stesse attivate dai farmaci.

Esistono diverse vie biochimiche recettoriali che influiscono sull’attività neuronale in determinate regioni cerebrali le quali possono essere modificate sia dai farmaci sia dal placebo con lo stesso identico meccanismo.

Tra queste ne prendiamo a modello tre:

  1. il sistema oppioide con i recettori MU a cui si lega la morfina e gli endocannobinoidi;
  2. la via della cicloossigenasi enzima che è il bersaglio dei farmaci antinfiammatori non steroidei (esempio l’aspirina);
  3. la via dei recettori della dopamina che entrano in gioco nel paziente parkinsoniano. Un placebo somministrato a pazienti col Morbo di Parkinson aumenta la dopamina in una zona del cervello e riduce l’attività di alcuni neuroni nello stesso modo come si ottiene con farmaci (levodopa).

La durata di effetto di un placebo è però più corto di quello farmacologico.

Il placebo, dunque, si può definire come un farmaco mascherato a cui si aggiunge il contesto psicosociale intorno al paziente, formato da parole, odore del farmaco, dall’essere toccato da apparecchiature e così via, tutti stimoli sensoriali e sociali che dicono al paziente che è in uno stato di terapia e quindi di aspettativa ed è questa che gioca il ruolo terapeutico fondamentale.

Tutti questi rituali attivano le stesse vie biochimiche dei farmaci che somministriamo nella vita quotidiana come i recettori CB1 che sono attivati dai cannabinoidi, i recettori mu che sono attivati dalla morfina, l’enzima cicloossigenasi che è inibito dall’aspirina e dagli antinfiammatori non steroidei.

Parole e farmaci hanno quindi le stesse vie di attivazione. Ne consegue l’importanza di unire la parola ed il rituale alla somministrazione di un farmaco. Questi studi pongono di nuovo il tema della centralità del rapporto medico-paziente, dalla cui relazione, positiva o negativa, verrà condizionato il risultato della terapia, che segue le stesse vie neurologiche e biochimiche di una medicina. Su questo l’intera classe medica deve porsi importanti domande per le sfide che ci vengono poste da un futuro sempre più robotizzato e tecno dipendente.