Dr. Speciani, ci sono differenze tra l’alimentazione di 50 anni fa e quella di oggi? In caso affermativo, la situazione è migliorata o peggiorata?

Sicuramente sì. Ci sono grandi differenze che coinvolgono non solo produzione, conservazione e qualità degli alimenti ma anche la comunicazione che viene fatta sul cibo e le abitudini di consumo che ne derivano.  Molti di questi cambiamenti determinano azioni dirette sulla salute e possiamo trovare sia variazioni in meglio che in peggio.

Per il nostro gruppo di ricerca (GEKLab) che da anni studia gli effetti immunologici e infiammatori dell’alimentazione nell’organismo, la possibilità di misurare specifici biomarcatori che si modificano in un tempo relativamente breve, aiuta a leggere in modo più immediato e diretto le azioni degli alimenti e degli zuccheri sulla salute, consentendone la indispensabile visione sistemica.

Per meglio capire “il bene e il male” dei cambiamenti intervenuti, senza essere esaustivo, propongo subito alcuni esempi che sono stati sicuramente migliorativi.

Per la tutela della sicurezza alimentare, sono stati fatti passi da gigante. Basta pensare al fatto che ormai le sofisticazioni alimentari sono diventate difficili da gestire su vasta scala (e per anni ai primi posti ci sono stati il pane e l’olio di oliva). Le contaminazioni alimentari sono ricercate attivamente e tracciate in tutta la filiera produttiva. Anche il solo sospetto di una contaminazione tossicologica o batterica porta al ritiro di interi lotti di produzione che minimizzano i potenziali effetti dannosi sulla salute.

Nel mercato delle carni, la legislazione Europea impedisce l’uso di ormoni (anche di quelli che poi spariscono) e infatti, per fare un esempio, le carni che arrivano dagli USA sono pochissime perché le loro regole produttive sono decisamente più “liberali” delle nostre e quasi sempre il loro prodotto non corrisponde alle regole di salute idonee per la popolazione europea. Un altro esempio è quello della riduzione dei nitrati presenti nelle carni conservate. Il cambio di tecnologia produttiva ha consentito di ridurre ai minimi termini l’uso di questi conservanti potenzialmente tossici e di consentire l’uso di salumi e carni conservate infinitamente meno problematici di quelli di 50 anni fa.

Poi però ci sono molti aspetti critici e  anche qui, senza essere esaustivo, basta considerare la crescita della quantità di zucchero pro capite, la preparazione di cibi super raffinati, l’abuso dei grassi vegetali idrogenati, la minore utilizzazione di cereali integrali e l’impiego di coltivazioni estensive che garantiscono maggiori quantità di raccolto ma una minore presenza di sali minerali nei cibi e il possibile ritrovamento di residui di pesticidi o di fitofarmaci nella produzione alimentare.

Basti pensare che dagli 8 chili pro capite di uso annuo di zuccheri alimentari nel 1950, si è passati ai 30/32 di media per questi ultimi 10 anni. Senza considerare i possibili eccessi zuccherini dati da frutta e alcolici.  Questo ha portato ad un incremento della prevalenza diabetica che è ormai classificato come “pandemia diabetica”.

Nel 2018 poi, il BMJ ha definito per la prima volta il rischio patologico per la assunzione di cibi ultra processati o iper raffinati. Lo studio è stato confermato sul JAMA nel 2019, definendo che un aumento del 10% del consumo di questi alimenti porta ad un aumento del 14% della mortalità da qualsiasi causa.

Tra i cibi iper processati sono inclusi bevande dolci e gasate, snack dolci o salati impacchettati, gelati industriali, cioccolato, caramelle, pani e dolci industriali, margarine, biscotti industriali, torte e mix per torte industriali, “cereali” da colazione (ricostruiti), bevande energetiche, bevande di frutta con zuccheri aggiunti o dolcificanti artificiali, carni o pesci ricostruiti (come würstel o certi tipi di salsiccia), zuppe istantanee e molti altri.

Non è la preparazione industriale (che può anche fornire prodotti sani e relativamente puliti) ad essere correlata al rischio di malattia, ma la iper-processazione che comporta passaggi chimici, trattamenti, colorazioni e quant’altro.

Le persone sono disorientate sulle scelte alimentari, anche perché il battage pubblicitario li condiziona molto. Come possiamo aiutarli a districarsi tra le informazioni dei mass media?

Basta un passaggio su qualsiasi social per leggere una particolare affermazione (tipo “i carboidrati fanno male”) e a distanza di pochi secondi un’affermazione opposta (tipo “i carboidrati fanno bene”).  Nessuna delle due affermazioni è corretta.

Uno dei motti del nostro gruppo di lavoro è infatti “Non esiste cibo nemico”, perché con il giusto equilibrio chiunque può concedersi qualche sgarro “pazzerello” valorizzando la compagnia, l’amicizia, la socialità e il gusto quando sta guadagnando “buoni sconto” per la salute attraverso una impostazione nutrizionale adeguata.

Faccio un esempio preciso riferendomi alla malattia di Crohn (una delle IBD o Malattie Infiammatorie Intestinali); questa malattia in Europa può dipendere anche da una relazione infiammatoria con particolari gruppi alimentari (come Frumento, Lieviti e Latte), mentre in Cina può dipendere da Soia, Riso e Mais, come spiegato su PLoS One fin dal 2014. Questo significa che non è né colpa del riso né colpa del glutine (cui oggi vengono spesso attribuite illusorie virtù “malefiche”) ma della modalità ripetitiva con cui una persona se ne nutre. Come scrivevo prima “Nessun cibo è nemico”.

Infatti, tutte le istituzioni più importanti a livello sanitario mondiale battono sulla necessaria varietà della dieta, sul fatto che non si mangino sempre gli stessi alimenti e che seguendo possibilmente la stagionalità alimentare si mangi in modo variato e completo senza inutili e pericolose eliminazioni (con l’eccezione, ovviamente, di celiachia e di gravi allergie IgE mediate).

C’è un’altra regola basilare legata alla quantità di proteine necessaria per ogni organismo che è di almeno 0,83 g di proteine per chilo di peso corporeo. Dopo i 60 anni questo valore sale anche a 1,2 grammi per chilo. Ricordando che un etto di pesce contiene 22/24 g di proteine (non 100 come molti credono) e che i legumi, quando sono preparati, ne contengono solo 7 g ogni 100, cioè la metà del pane ben fatto e quindi possono solo contribuire al raggiungimento della quota necessaria per fare funzionare correttamente l’intero organismo.  La quantità di proteine (ad esempio circa 60 g per una giovane donna di 65 kg di peso), deve essere distribuita nei tre pasti in modo uniforme.

Una volta definito che l’alimentazione deve essere varia e che deve bilanciare sempre, in ogni pasto (prima colazione compresa), carboidrati, proteine e fibra (verdura e frutta), come spiegato dalla Harvard Medical School fin dal 2010, il resto deve essere basato sulla personalizzazione.

Come ho detto all’inizio, oggi è possibile evidenziare specifici biomarcatori dell’infiammazione (il BAFF ad esempio) e della glicazione per capire come ogni persona debba nutrirsi. Il concetto di Medicina di Precisione deve essere declinato attraverso una Medicina e una Nutrizione personalizzate.

Io ad esempio, che ho personalmente una genetica sicuramente sfavorevole con predisposizione al diabete e all’accumulo di peso, posso vivere una vita “serena” attraverso la verifica dei miei valori di glicazione (quindi del Metilgliossale – MGO e della percentuale di albumina glicata) e intervenendo sulla mia dieta quando questi si alterano eccessivamente.

Conoscere come il mio organismo risponde alla assunzione di carboidrati, di zuccheri, di alcol e di fruttosio (quindi anche di frutta), mi consente di nutrirmi nel modo più adeguato a controllare la risposta infiammatoria e di evitare i danni generati dai radicali di glucosio e fruttosio.

La glicazione non enzimatica, dovuta all’eccesso individuale di assunzione di glucosio, fruttosio, alcol, polioli e dall’eccesso di carboidrati raffinati è stata riconosciuta, negli ultimi 15 anni, come una delle più importanti cause di alterazione delle proteine e del DNA oltre che di ossidazione e di infiammazione delle strutture organiche.

La glicazione, determina anche una specifica azione di alterazione del metabolismo con induzione di insulino resistenza, quasi a creare un circolo vizioso relativo alle sostanze a veloce assorbimento e assimilazione.

Il suo studio e la valutazione delle sue oscillazioni sono quindi una nuova chiave di lettura della nutrizione che consente una assoluta personalizzazione nutrizionale e una vera azione preventiva e terapeutica nella maggior parte delle malattie croniche più diffuse.

È tutto vero sulla necessità di ridurre i carboidrati per una migliore salute?

In parte è vero, perché negli ultimi anni, complici anche delle assurde piramidi alimentari basate soprattutto su pasta e pane anziché sull’equilibrio tra i nutrienti, si è assistito ad una dominanza alimentare di carboidrati, spesso raffinati se non addirittura iper raffinati. La loro riduzione, in genere, in un mondo che in alcune aree geografiche (Cina e USA) è arrivato a toccare prevalenze del 52/55% includendo prediabetici e diabetici, è sicuramente utile ma non deve essere assoluta.

Della glicazione ho già detto, ma voglio rimarcare quanto sia inutile proporre in modo generico di “eliminare gli zuccheri”. C’è chi lo fa e magari dopo 15 giorni di sofferenza sviluppa fenomeni di potenziale “binge eating” proprio nei confronti delle sostanze dolci.

L’organismo umano ha addirittura un ormone (NPY) che fa cercare gli zuccheri e le sostanze ad alta densità calorica. Inoltre il gusto dolce (anche se induce ulteriore ricerca di zuccheri e facilita la resistenza insulinica) è parte della cultura umana, del piacere e della socialità.

Quindi, carboidrati e zuccheri vanno utilizzati con rispetto ma vanno comunque utilizzati, controllando le risposte individuali e evitando i fenomeni di variabilità glicemica che determinano i veri problemi. Quando i valori glicemici riescono a mantenersi stabili, anche se sono slivellati verso l’alto come accade nel diabetico, la variabilità glicemica non è molto elevata e i fenomeni di glicazione sono sufficientemente controllati

Quando invece la assunzione alimentare provoca dei picchi anomali, si assiste ad una fluttuazione di valori che la scienza ha definito appunto come “variabilità glicemica” e che risulta essere una delle più rilevanti cause di malattia e di mortalità. Il Metilgliossale, ad esempio, è riconosciuto fin dal 2005 (Clinical Biochemistry) come indicatore delle fluttuazioni e della variabilità glicemica. Il nostro gruppo di ricerca ha identificato proprio il Metilgliossale (Nutrients 2020) come predittore precoce del diabete, visto che dal 2019 le più importanti riviste diabetologiche mondiali hanno affermato che emoglobina glicata e glicemia a digiuno, utili per seguire il diabete già comparso, non sono in grado di predirne la comparsa e l’evoluzione, non riuscendo a intercettare il prediabete.

Le allergie sono in aumento. Quanto incide l’alimentazione sulla sindrome allergica? Può indicare un prospetto generico alimentare per ridurre l’incidenza allergica?

Una recente ricerca, pubblicata nel 2017 sul Journal of Allergy and Clinical Immunology, ha definito che solo nel 38% delle risposte allergiche si riesce a individuare una causa unitaria (fragola e orticaria, contatto col nichel e dermatite, polline di graminacee e asma eccetera). Questo significa che il 62% delle reazioni allergiche, similallergiche e infiammatorie dipendono da una condizione multifattoriale e la glicazione sembra essere una delle concause più frequenti.

Faccio l’esempio dell’asma: l’evoluzione della conoscenza scientifica ha aiutato nel tempo a considerare un numero sempre maggiore di possibili cause e fin dal 2006 si è iniziato a riconoscere che le risposte allergiche (come tosse, asma, congiuntivite, rinite, difficoltà di respiro) potevano dipendere da una condizione infiammatoria diffusa causata dall’alimentazione, in cui singole sostanze ambientali (come i pollini, le muffe o gli acari), agivano come “gocce che facevano traboccare un vaso” e non per una allergia specifica. In particolare gli studi di Brandt (2006) hanno valutato la comparsa di manifestazioni allergiche in assenza di allergia IgE mediata, a seguito di processi infiammatori intestinali. Più di recente gli studi di Antonella Cianferoni (immunologa e pediatra del Children Hospital di Philadelphia) hanno riproposto l’esistenza della anafilassi non mediata dalle IgE, come se si parlasse di “allergie non allergiche”.

Ancora, alcuni importanti ricercatori delle Università di Pittsburgh e di Rochester (USA) nel 2021 hanno spiegato che, al di là delle situazioni sempre meno frequenti di allergia mediata dalle IgE, con tutta probabilità è la somma degli effetti complessivi dell’alimentazione ad essere responsabile dell’asma e di molte altre manifestazioni allergiche. Come dire che è inutile andare a cercare solo un antigene specifico o solo le IgE. Vanno compresi insieme, ad esempio, il ruolo proinfiammatorio dell’alimentazione, gli effetti della glicazione, l’apporto di antiossidanti e la regolazione energetica degli alimenti. Un quadro complessivo che conferma dove stia andando la scienza oggi.

Quindi, le allergie esistono e quando sono IgE mediate ad alto titolo possono essere anche molto severe, ma le manifestazioni allergiche o simil allergiche sono sempre di più legate anche a una interferenza infiammatoria di tipo alimentare o da glicazione. Per comprendere questo aspetto e trasformarlo in prassi terapeutica, è necessaria la valutazione individuale delle risposte infiammatorie e di glicazione attraverso la lettura di specifici biomarcatori. Fare “Medicina personalizzata” significa personalizzare anche la nutrizione sulla base delle risposte individuali che oggi si possono misurare e seguire nel tempo per derivare suggerimenti nutrizionali adeguati ad ogni singolo individuo. Come ho già segnalato all’inizio, una alimentazione variata e completa, che controlli l’infiammazione attraverso il rispetto del bilanciamento dei nutrienti, valorizzando la giusta quantità di proteine necessaria al buon funzionamento del sistema immunitario e che eviti il sovraccarico sistematico di alcuni alimenti, è la base per una nutrizione antiallergica. Per fare un esempio, un allergico alle graminacee che mangia spesso pane, pasta, grissini e cracker, farà bene, nel periodo di fioritura stagionale a mangiare glutine e frumento solo un paio di giorni della settimana, riducendo il carico ripetitivo del glutine e preferendo riso, patate, grano saraceno, mais, avena ed altri cereali alternativi nella alimentazione degli altri 5 giorni della settimana.

Faccio il medico da più di 43 anni e come allergologo e immunologo ho capito ormai che andare “a caso” non paga mai. Il motto principale e più importante del nostro gruppo di lavoro (GEKLab) è “Misurare è meglio che supporre” e soprattutto nell’ambito della nutrizione, seguire in modo consapevole l’andamento dei processi infiammatori dovuti agli alimenti e agli zuccheri consente davvero di trasformare dei semplici suggerimenti nutrizionali in vera medicina di precisione per il benessere.

 

Dottor Attilio Speciani

Immunologo Clinico e Specialista in Allergologia

Docente Master di Nutrizione Università di Pavia

Chief Scientific Officer GEKLab.com

Direttore scientifico eurosalus.com

attilio.speciani@studiospeciani.it