di Angelo Micozzi*
Premessa. Covid-19 ha colpito in modo sproporzionato gli anziani con tassi di mortalità significativamente più elevati rispetto alla popolazione pediatrica. Questa osservazione è stata registrata in tutti i Paesi afflitti dalla pandemia ed è stata associata alle malattie pregresse, soprattutto di natura metabolica.
L’individuazione del recettore virale DPP4 (CD26), presente sulle cellule dendritiche ed endoteliali (fondamentali per la fase iniziale dell’infezione), ma anche su quelle cosiddette periferiche, ossia le cellule epiteliali della mucosa respiratoria (importanti nel periodo di stato della malattia), consente di ipotizzare una strategia terapeutica razionale, mediante l’uso degli anticorpi monoclonali specifici.
L’anticorpo monoclonale anti-CD26, recentemente segnalato nel trattamento di pazienti con rigetto di trapianto steroido-refrattario, è stato proposto nella terapia del COVID-19, sulla base di alcune considerazioni. Il DPP4 è una proteasi che aiuta il virus a ridurre l’autofagia (processo fisiologicamente finalizzato a eliminare i microrganismi esterni dalle cellule ospiti), a sostenere uno stato iper-infiammatorio e a ridurre la risposta linfocitaria antivirale dell’ospite. Considerando la possibilità di contrastare il legame CD26/Spike e favorire l’autofagia impedita dalla molecola, è stato proposto, dunque, l’uso del Begelomab (anti-CD26), nella terapia almeno iniziale del COVID-19[i].
Rimane tuttavia insoluto l’enigma, per il quale il tasso di mortalità nella popolazione anziana è molto alto. Una ipotesi di studio, che comincia a emergere tra i lavori recenti, in tema di COVID-19, riguarda il ruolo del Cytomegalovirus (CMV), nella patogenesi della malattia, soprattutto per ciò che attiene alla ri-presentazione antigenica e alla conseguente ri-attivazione della risposta immunitaria.
Il tasso di sieroprevalenza del CMV aumenta con l’età. È stato dimostrato che il CMV influenza i fenotipi delle cellule T periferiche, aumenta le citochine infiammatorie, soprattutto l’IL-6 e gioca un ruolo nella disregolazione immunitaria con l’età. Il ruolo del CMV nei pazienti critici da Covid-19 merita di essere esplorato attraverso lo studio delle IgG di CMV, delle cellule immunitarie specifiche e della carica SARS-CoV-2.
Queste considerazioni possono aiutarci a orientare la comprensione sull’uso di trattamenti immunomodulatori con anticorpi monoclonali e anche determinare se il trattamento antivirale specifico del CMV possa avere un ruolo nella cura dei pazienti Covid-19.
Un altro importante pilastro della terapia, infatti, dovrebbe essere rivolto al danno vascolare che deriva dall’infezione da SARS-CoV-2, come si può evidenziare dai pochi casi autoptici descritti in letteratura.
Ipotizzando che tale danno possa essere la conseguenza della riattivazione di infezioni croniche persistenti e sottostanti, quali il CMV. In questi casi, un’altra molecola, l’aminopeptidasi N (CD13), che funziona da recettore per CMV, potrebbe diventare un secondo bersaglio di una terapia mirata con anticorpi monoclonali.
L’epidemia da SARS-CoV-2 sembra avere un andamento imprevedibile. Nella fase acuta della pandemia, tra febbraio e aprile, sembra avere causato la più alta morbilità e mortalità negli adulti di età superiore ai 70 anni.
Successivamente, ha cominciato a manifestarsi anche in età più giovane, fino a interessare la popolazione pediatrica, con sindromi immuno-mediate, quali la malattia di Kawasaki. Attualmente, il contagio sembra prevalente tra gli adulti giovani, nella gran parte dei casi asintomatici.
Questo fenomeno, se aiuta a costituire la cosiddetta “immunità di gregge”, rischia di diffondere il contagio nella popolazione più a rischio, la quale non comprende soltanto gli anziani e i portatori di malattia cronica sottostante, ma anche persone in apparente buona salute. Proprio la condizione di apparente buona salute ci dovrebbe impegnare nella ricerca di un fattore comune patogenetico, che potrebbe essere inquadrato in una forma di infezione cronica, preesistente al coronavirus.
Una serie di fattori ambientali (viaggi o promiscuità sul posto di lavoro, maggiore contatto con casi di malattia, fumatori di sigarette) e condizioni di salute sottostanti (ipertensione, diabete e malattie respiratorie croniche) sono stati associati alla malattia di Covid-19 grave e alla morte. Tutti questi fattori sono più comuni negli adulti anziani, piuttosto che nei bambini[ii].
I fattori di rischio associati a COVID-19, richiedono una profonda riflessione. Tra questi fattori, oltre quelli ben conosciuti, quali la sindrome metabolica, le malattie oncologiche e le condizioni di immunodepressione, possiamo considerare le malattie croniche, soprattutto quelle di origine infettiva.
È anche probabile che la risposta immunitaria dell’ospite svolga un ruolo fondamentale nell’accelerare la progressione della malattia negli individui anziani affetti da SARS-CoV-2. Le cellule T, infatti, che rivestono un ruolo cruciale nel controllo delle infezioni virali in fase acuta, decadono con l’avanzare dell’età, in un processo di invecchiamento, denominato “immuno-senescenza”[iii].
Tale processo è correlato alla persistente risposta immunitaria verso il Cytomegalovirus (CMV). La sieroprevalenza del citomegalovirus (CMV) aumenta con l’età e si avvicina all’80% entro i 70 anni, nell’Europa settentrionale. La persistente risposta al virus è legata a una ricorrente (se non continua) presentazione di antigene, la quale è messa in relazione con altre infezioni, secondo l’affascinante nozione di “immunità eterologa”[iv].
Per tutti questi motivi, prenderemo in considerazione il ruolo della risposta anti-CMV nei pazienti COVID-19. Il CMV è un importante patogeno, implicato in diverse condizioni cliniche. Esiste una notevole mole di dati, che conferma gli effetti del virus durante l’intero corso della vita.
Immunosenescenza e CMV. La senescenza, in particolare, è caratterizzata da uno stato infiammatorio di grado lieve, anche denominato “inflammaging”. Ciò rappresenta un significativo fattore di rischio per la morbidità e la mortalità dell’anziano ed è implicato nella patogenesi di numerose patologie, quali diabete tipo 2, osteoporosi, Alzheimer, artrite reumatoide e malattia coronarica[v].
I mediatori dell’infiammazione, quali citochine e proteine della fase acuta sono considerati i marcatori di inflammaging. Tra questi, i livelli di IL-6 e proteina C reattiva permettono di predire la mortalità dell’anziano a 3 anni[vi].
Il motore patogenetico di tutte queste osservazioni cliniche è dato dalla capacità di stimolazione cronica dei linfociti, da parte del CMV. Tale virus infetta le cellule epiteliali, endoteliali, stromali e i fibroblasti. Anche le cellule muscolari lisce e gli adipociti sembrano presentare gli antigeni virali nel contesto delle molecole HLA di classe 1.
La risposta infiammatoria, innescata dalla attivazione dei linfociti da parte del CMV, permette il rilascio di citochine dalle cellule immunitarie e genera un circolo vizioso, che rimodella l’intero assetto del sistema. I mediatori stessi dell’infiammazione sono in grado di riattivare l’infezione o la presentazione antigenica.
In particolare, gli studi in vitro, condotti su cellule HeLa, mostrano che il CMV induce l’attivazione dell’NF-kB, da cui consegue la produzione di TNF-α. Ulteriormente, tale citochina attiva il CMV dallo stato di latenza, da cui consegue ancora un addizionale avvio della risposta infiammatoria[vii].
Numerosi lavori hanno mostrato una espansione clonale di linfociti T CMV-specifici nei soggetti anziani sieropositivi. Le opinioni discordanti sull’argomento poggiano unicamente sulla difficoltà di stabilire se un titolo di IgG sia in relazione a una infezione recente o del passato. In ogni caso, le prove di avidità della reazione antigene/anticorpo permettono di stabilire una eventuale fase di riattivazione della risposta.
Il diabete tipo 2 è considerato tra le malattie infiammatorie più frequenti nell’anziano. L’immunosenescenza e l’inflammaging sono fortemente implicate nella sua patogenesi, in associazione alla sieropositività per il CMV. Nel circolo vizioso analogo a quello descritto in precedenza, la stessa iperglicemia altera le risposte immunitarie alle infezioni e in particolare al CMV, accentuando lo scompenso diabetico[viii].
Andando oltre, è stata da tempo dimostrata la forte associazione tra aterosclerosi e risposta anti-CMV. Si è postulato, di conseguenza, che tale risposta aumenti la mortalità per accidenti cardiovascolari, attraverso processi immunologici, che coinvolgono soprattutto i linfociti T citotossici, da tempo riscontrati nelle placche aterosclerotiche, insieme alle citochine infiammatorie da loro prodotte.
Tra queste citochine, IL-1 e TNF-α sono in grado di attivare la proteina p38 (MAP, proteina mitogena) dei linfociti T e la loro conseguente differenziazione, innescando a loro volta il circolo vizioso dell’immunosenescenza. Tali linfociti T anti-CMV si legano all’endotelio e ai recettori b2-adrenergici, i quali permettono una rapida risposta allo stress[ix].
La sieropositività per CMV, quando associata a una elevata proteina C reattiva e a un aumento di IL-6, rappresenta un importante rischio di mortalità, nei pazienti con malattia coronarica. Attualmente, dunque, la presenza di IgG anti-CMV è considerata un fattore predittivo di infarto, con il tramite di una infiammazione cronica sistemica[x].
CMV e COVID-19. Una infezione primaria da COVID-19 si esprime su una piattaforma consolidata di carico infettivo cronico (virus persistenti), la quale può agire come fattore determinante dell’esito. Ad oggi, l’importanza della storia di una infezione precedente ha ricevuto poco interesse da parte dei clinici. In particolare, tutti gli adulti ospitano una serie di infezioni virali persistenti.
Questo insieme di agenti cronici, ormai endogeni, è stato definito globalmente ‘viroma’ e può essere considerato il presupposto effettivo per l’instaurarsi dell’immunità eterologa. Esso gioca un ruolo importante nel promuovere la maturazione della funzione immunitaria e può anche influire sulla capacità di generare risposte immunitarie a nuovi patogeni[xi].
La famiglia degli herpesvirus è uno dei gruppi meglio caratterizzati e più numerosi di infezioni virali persistenti. Questi otto virus condividono una serie di caratteristiche, tra cui un’infezione primaria relativamente lieve nella maggior parte dei casi seguita da una persistenza per tutta la vita come conseguenza della latenza virale e del controllo immunologico sostenuto della replicazione virale[xii].
Il Cytomegalovirus (CMV) è il più grande membro di questa famiglia, con un genoma di 235 kb che codifica per oltre 160 proteine. Tra le sequele cliniche dell’infezione, si deve considerare la spiccata tendenza a condizionare il decorso e l’esito di infezioni successive dovute ad agenti patogeni diversi, sia nell’estensione della replicazione virale, sia nella qualità della successiva risposta immunitaria.
Il CMV è una delle infezioni persistenti più comuni nella popolazione umana ed è probabile che oltre 4 miliardi di persone siano infettate al momento attuale. L’infezione si incontra spesso molto presto nella vita, ma può verificarsi a qualsiasi età ed è solitamente asintomatica. Il virus persiste poi in una serie di tessuti, tra cui cellule mieloidi, endotelio vascolare e tessuto renale.
Come si è detto, una delle caratteristiche dell’infezione da CMV è la sua influenza sulla risposta immunitaria. Il virus agisce sulla maturazione e sulla composizione a lungo termine del repertorio immunitario. Ciò si evidenzia più chiaramente nel numero e nella proporzione di linfociti citotossici T e NK all’interno della circolazione periferica, che sono aumentati dal 30 al 40% negli individui sieropositivi per CMV[xiii].
È importante notare che questa espansione del numero di cellule effettrici specifiche del virus e della memoria è associata ad una sostanziale diminuzione della proporzione relativa di linfociti vergini. Ulteriori associazioni includono alterazioni dei marcatori infiammatori sistemici e l’infezione di una parte delle cellule mieloidi[xiv].
Piuttosto sorprendentemente, lo stato sieropositivo del CMV ha effettivamente dimostrato di aumentare le risposte del vaccino nei giovani e questo è forse in linea con la sua profonda capacità di guidare la maturazione delle risposte immunitarie Th1 nei bambini dopo l’infezione primaria. Un consenso emergente è che il CMV può agire per migliorare la funzione immunitaria nei giovani, assumendo poi un impatto negativo sulla funzione immunitaria nelle persone anziane[xv].
Come tale, la profonda correlazione tra il rischio di mortalità da infezione da SARS-CoV-2 e l’aumento dell’età potrebbe essere spiegata in parte dalla contrazione negativo della funzione immunitaria nelle persone anziane indotta dal virus (Fig. 1). Questo effetto può essere guidato dal fenomeno dell'”inflazione della memoria”, che si riferisce all’accumulo graduale di cellule effettrici e cellule di memoria specifiche del CMV durante l’età, associato a una riduzione di linfociti T vergini[xvi].
Così, l’enorme investimento dell’ospite nell’immunità specifica del CMV, a scapito del repertorio vergine, potrebbe agire con una dinamica diretta per limitare le risposte immunitarie protettive contro il SARS-CoV-2. Oltre all’entità della risposta immunitaria adattiva, l’infezione da CMV potrebbe anche influenzare la qualità delle cellule effettrici verso il SARS-CoV-2.
La persistenza della presentazione antigenica di CMV, che equivale a una persistente risposta citotossica dei linfociti T specifici, predispone l’individuo per altre infezioni virali, come nel caso di SARS-CoV-2. In condizioni di equilibrio, quando le cellule T senescenti muoiono, il timo le rimpiazza con linfociti T vergini.
Tuttavia, la produzione di linfociti nel timo è ridotta fino al 99% nei settantenni rispetto ai neonati[xvii]. La memoria anti-CMV tende a compensare questo vuoto, espandendo i linfociti, prevalentemente citotossici, assicurando che il numero complessivo di cellule T non diminuisca in modo significativo con l’avanzare dell’età (fenomeno della inflazione linfocitaria anti-CMV)[xviii].
L’accumulo di cellule T a memoria differenziata terminale specifica e la riduzione delle cellule T CD8+ vergini negli anziani, a causa dell’involuzione timica, sono associati al fallimento del vaccino antinfluenzale nelle persone anziane[xix].
Quindi, nel complesso, la sieropositività del CMV (con alti livelli di IgG) e i cambiamenti osservati nelle popolazioni di cellule T in massa sembrano essere correlati al rischio di malattia tra gli anziani.
Sono state osservate maggiori concentrazioni di IL-6 in individui infetti da CMV con scarse risposte al vaccino antinfluenzale[xx]. Uno studio longitudinale del DNA del CMV nei monociti periferici nelle donne di età superiore ai 70 anni ha mostrato che le donne affette da CMV, con carica virale significativa, avevano livelli di IL-6 significativamente più alti (3,06 + 0,58 vs 1,19 ± 0,37 pg/mL, rispettivamente, P < .001), rispetto a quelle senza viremia[xxi].
Diversi studi hanno mostrato una significativa associazione tra sieropositività di CMV, IL-6 e la morbilità/mortalità nelle donne anziane di età superiore ai 70 anni[xxii]. Lo studio SALSA (Sacramento Area Latino Study on Aging), condotto su persone ispaniche di età superiore ai 60 anni in California, ha mostrato che alti livelli di anticorpi IgG del CMV erano significativamente correlati alla mortalità e che questo era mediato dall’IL-6[xxiii].
La riattivazione del CMV è stata associata alla mortalità e alla permanenza prolungata in terapia intensiva, in pazienti gravemente malati per qualsiasi causa[xxiv]. Uno studio randomizzato controllato con placebo ha dimostrato che il ganciclovir/valganciclovir potrebbe ridurre significativamente la riattivazione del CMV in tali pazienti e potenzialmente abbreviare la durata della permanenza in terapia intensiva[xxv].
È probabile che la maggior parte dei pazienti anziani infetti da Covid-19 siano sieropositivi al momento dello sviluppo della malattia. Nei pazienti con malattia grave di COVID-19 la comprensione della riattivazione nella risposta immunitaria al CMV (per ri-presentazione antigenica) può aiutare a identificare nuove strategie di trattamento per limitare il potenziale ruolo infiammatorio del CMV.
Immunità eterologa. Dalle considerazioni patologiche sopra esposte, emergono interessanti possibilità di comprensione patogenetica. Gli aspetti fondamentali della questione sono riconducibili a due evidenze: endotelite acuta e polmonite interstiziale, con necrosi emorragica, la cui conseguenza è la fibrosi, intesa come processo riparativo.
In prima istanza, si potrebbe affermare che tali alterazioni possono essere una conseguenza dell’infezione, in quanto l’endotelio esprime il recettore CD26, permettendo alla cellula di internalizzare il COVID-19, processarlo e presentarlo come antigene. In questo modo, la risposta citotossica T può determinare la vasculopatia.
Una seconda ipotesi possiamo verificarla nell’ambito di una eventuale e pregressa risposta di memoria a un agente infettivo, riattivata dal Coronavirus per immunità eterologa. La più importante conseguenza della immunità adattativa, infatti, è la memoria delle risposte linfocitarie. Tale memoria può alterare le risposte a nuove infezioni e anche il decorso delle malattie correlate.
L’immunità eterologa può alterare l’esordio di una nuova infezione e condizionarne la progressione, da una forma subclinica, fino a una severa immunopatologia. In altri termini il concetto di immunità eterologa esprime l’influenza che la risposta T a un particolare virus possa avere nei confronti di un’altra risposta. Tali linfociti sono marcati prevalentemente CD8+.
È stato dimostrato, che una recente infezione virale induce la formazione di nuove cellule T di memoria, specifiche per un secondo virus pregresso, apparentemente non correlato, ma dotato di reattività crociata[xxvi].
Il mosaico di linfociti T memoria è, dunque, estremamente dinamico e dipende dalla presenza di risposte in comune con epitopi condivisi, sulla base della reattività crociata tra patogeni non correlati. Di fatto, il fenomeno della immunità eterologa poggia interamente sul mimetismo molecolare tra agenti infettivi diversi tra loro.
Tale fenomeno è molto più comune di quanto si possa pensare. Nei modelli murini, si può notare che una eventuale mancanza di apoptosi di cellule T memory, nelle fasi acute di una infezione nuova, determina un forte aumento dei linfociti T cross-reattivi[xxvii].
Un esempio estremamente interessante è dato dalla reattività crociata tra HPV16 ad alto rischio e il b-Coronavirus OC43. Esiste, infatti, un epitopo in comune, ristretto nell’ambito dell’HLA-A2, che determina una risposta TCR analoga su ambedue gli agenti patogeni[xxviii].
Ipotesi patogenetica (possibile immunità eterologa da CMV). Purtroppo, i dati relativi a una possibile immunità eterologa del COVID-19 non sono ancora disponibili e, probabilmente, non lo saranno ancora per molto tempo. Tuttavia, almeno in linea teorica, si può ipotizzare che il virus, come nell’esempio precedente di HPV/CoV-OC43 determini una patologia catastrofica, per la sua capacità di riattivare vecchie risposte.
L’aspetto patologico, in questo senso, potrebbe tornare molto utile, andando a reperire tutte le informazioni relative ad agenti patogeni, latenti e persistenti, implicati nei tre aspetti fondamentali: endotelite, necrosi emorragica polmonare e conseguente fibrosi interstiziale. Un’ipotesi coerente potrebbe identificarsi con una pregressa infezione da CMV, il quale avrebbe, nella sua capacità di riattivare la risposta linfocitaria, un tropismo elettivo nei confronti dell’endotelio (endotelite), dell’epitelio polmonare (polmonite con necrosi emorragica) e dei fibroblasti (fibrosi interstiziale).
In più, tale virus a Dna è stato messo in relazione con i fattori cardio-vascolari, che rappresentano la co-morbidità più frequente in caso di infezione da COVID-19 e il rischio maggiore per una prognosi infausta. Il CMV, infatti, è un agente opportunista implicato nella patogenesi delle malattie vascolari. L’infezione delle cellule endoteliali in vitro determina un danno nelle pareti dei vasi, che rappresenta il presupposto delle trombosi in vivo, nelle fasi acute della malattia. È stato ipotizzato che l’infezione dell’endotelio attivi la cascata della coagulazione e contribuisca alla formazione di trombi[xxix].
Cytomegalovirus. Il CMV è denominato HHV-5. È un agente infettivo molto diffuso, anche nella popolazione in apparente buona salute e si può trasmettere attraverso sangue, saliva, urine, lacrime, liquido seminale e vaginale e anche latte materno. È un b-herpes virus, il quale determina una infezione latente in gran parte della popolazione umana, con una incidenza che aumenta con l’età. Una volta attivata la risposta, il sistema immunitario non è in grado di eliminare il virus, da cui consegue una infezione latente[xxx].
Nei pazienti immunodepressi il CMV può determinare polmonite interstiziale, gastroenterite, retinite, epatite e insufficienza renale, come il COVID-19. L’infezione da CMV è implicata in stati infiammatori più o meno intensi e in un aumento del rischio di malattie vascolari, tra cui l’aterosclerosi e l’ipertensione.
Le risposte specifiche al CMV rappresentano l’8% delle cellule T di memoria (sia CD4+, sia CD8+), nella circolazione periferica degli individui infetti e possono espandersi fino al 30% negli anziani. Tale inflazione di linfociti sembra legata a una minima, ma costante, presentazione di antigene virale, la quale, a differenza di altre infezioni (es. HIV o HCV), non provoca esaurimento delle cellule T. La persistenza è l’espressione dell’ampio tropismo di CMV, il quale può interessare molti tipi di cellule, ma soprattutto quelle endoteliali ed epiteliali, oltre ai fibroblasti e le cellule muscolari lisce[xxxi].
Mentre alcuni tipi di cellule sopportano una robusta replicazione della fase acuta, da cui il virus può essere eventualmente eliminato, altri tipi di cellule, come quelle endoteliali ed epiteliali, tendono a instaurare una convivenza cronica. Inoltre, le cellule progenitrici ematopoietiche e le cellule della linea mieloide (es. i monociti CD14+) ospitano i genomi virali in assenza di replicazione attiva, funzionando da veri e propri serbatoi latenti del virus[xxxii].
Nella nostra trattazione, attribuiamo una grande importanza alla presenza e al ruolo dei linfociti T memory. La riattivazione di questi, per cause infettive intercorrenti (quindi per immunità eterologa), può essere il presupposto di un danno endoteliale, che sembra uno dei pilastri fondamentali della patologia da COVID-19.
Come sopra accennato, l’infezione da CMV è associata a una forte espansione di linfociti T specifici (CD4+ e CD8+), tale da generare e mantenere uno stato infiammatorio sistemico basale, anche nella fase di latenza virale. In questa fase, infatti, si esprimono comunque alti livelli plasmatici di CXCR3, ossia del recettore per la chemochina IP-10, sulle cellule endoteliali[xxxiii].
Questo aspetto fa pensare a una sorta di equilibrio precario, sulla falsariga di quello che si visto per la formazione dei granulomi tubercolari. Ancora una volta, tale equilibrio può essere interrotto dall’azione di una molecola ad attività proteasica, quale DPP4 (CD26), troncando in forma inattiva la IP-10.
Insomma, il tropismo endoteliale del CMV è stato ampiamente studiato, anche a proposito della trombo-embolia. In tale condizione, il ruolo patogenetico del virus è stato ipotizzato fin dal 1974, dapprima nei pazienti immuno-compromessi, successivamente anche in quelli immuno-competenti[xxxiv].
In ogni caso, non è la presenza del virus in quanto tale a determinare apoptosi delle cellule endoteliali, bensì la presentazione di antigeni sulle membrane. Tali antigeni sono riconosciuti dai linfociti specifici citotossici CD4+, con la conseguenza di un forte stimolo infiammatorio, tale da danneggiare le pareti vascolari[xxxv].
Un ultimo aspetto fondamentale riguarda il reperimento di cellule giganti polinucleate nelle lesioni polmonari. Da molti anni è stata descritta la capacità del CMV di indurre la fusione dei fibroblasti embrionali. Le cellule infettate dal virus sviluppano inclusioni intranucleari e intracitoplasmatiche e cominciano la fusione in cellule giganti multinucleate entro 4 giorni[xxxvi].
Razionale terapeutico di anti-CD13. Il CD13 è una proteasi transmembrana di 150 kDa, presente su molti tessuti e cellule (endoteliali, epiteliali, fibroblasti e leucociti). La sua funzione è di scindere le catene polipeptidiche nei singoli aminoacidi. Modula anche le risposte dei peptidi bioattivi, quali il dolore e il rilascio di vasopressina, le risposte immunitarie, la proliferazione cellulare e l’angiogenesi[xxxvii].
Ormai da tempo si conosce il ruolo delle aminopeptidasi N o CD13 o metalloproteasi, nelle infezioni da CMV. Questo virus herpetico, come altri, infetta le cellule con una serie di processi, che includono il legame con il recettore sulla cellula bersaglio, la penetrazione, attraverso la fusione dell’envelope con la membrana plasmatica e il trasporto del Dna virale nel nucleo. Gli anticorpi anti-CD13 neutralizzano l’intera infettività del CMV[xxxviii].
Il CD13 è anche il recettore del Coronavirus umano 229E, il quale è messo in relazione con importanti infezioni del tratto respiratorio. Questa metallo-proteasi è espressa sulla superficie di cellule dendritiche ed endoteliali, dell’epitelio intestinale, polmonare e renale, dove svolge la sua attività enzimatica[xxxix].
Il Coronavirus 229E è uno degli agenti infettivi in grado di innescare la malattia demielinizzante del sistema nervoso centrale. Inizialmente descritto come opportunista patogeno delle vie respiratorie, tale virus possiede una capacità neuro-invasiva, che può danneggiare le strutture nervose, sia come innesco, sia come esacerbazione di malattie neurologiche, quali la sclerosi multipla[xl].
La localizzazione del CD13 spiega il particolare tropismo per gli epiteli, sia nelle infezioni da CMV, sia in quelle da Coronavirus 229E. Nella malattia infiammatoria cronica dell’intestino, ad esempio, è stata dimostrata la presenza di anticorpi anti-CD13. Ciò suggerisce il ruolo dei due virus nella genesi della malattia e quello di anti-CD13 nella sua evoluzione.
È stato osservato, che un numero importante di pazienti con IBD (alcuni Autori parlano del 90%) mostra una infezione attiva da CMV, mentre gli anti-CD13 sono presenti nel 66% dei pazienti con colite ulcerosa e nel 58% di quelli con malattia di Crohn. Ovviamente, tali anticorpi sono strettamente associati alla presenza di una risposta anti-CMV[xli].
Questo modello di autoimmunità è spiegato dal mimetismo molecolare. Il CD13, infatti, è presente su tutte le cellule bersaglio, ma anche nell’envelope del virus, durante la fase di assemblaggio del nucleo-capside, all’interno dei vacuoli derivati dal Golgi. Per questo motivo, dunque, si formano anticorpi anti-CD13[xlii].
Razionale per la profilassi con anti-CD26. DPP4/CD26 è una glicoproteina appartenente alla famiglia delle oligopeptidasi, la cui funzione è rimuovere il dipeptide N-terminale dalle proteine contenenti prolina, glicina o alanina. Grazie alla sua attività enzimatica, la DPP4/CD26 interagisce con molte proteine, come l’adenosina deaminasi, la fibronectina, il collagene, il recettore della chemochina CXCR4 e la tirosina fosfatasi CD45[xliii].
CD26 è costitutivamente espresso su una varietà di tipi di cellule e tessuti, come la prostata, rene, fegato, cellule epiteliali e dendritiche. Così, alcuni sintomi e segni associati con COVID-19, cioè nausea, vomito, diarrea, polmonite e insulino-resistenza, potrebbero essere spiegati dalla distribuzione diffusa di CD26. Il CD26 si esprime anche sulle venule del miocardio/capillari e sui pneumociti, specialmente nei fumatori o con una precedente malattia polmonare cronica[xliv].
La DPP4/CD26 è stata precedentemente segnalata come uno dei recettori del MERS-CoV, il virus responsabile dell’epidemia che si è verificata in Medio Oriente nel 2012. L’osservazione che il CD26 è raramente rilevato nella cavità nasale mentre più frequentemente si trova nelle vie aeree distali e che le manifestazioni cliniche più frequenti durante l’epidemia del 2012 hanno interessato le basse vie respiratorie, sembra sostenere il ruolo rilevante della DPP4 nelle infezioni sostenute da Coronavirus[xlv].
CD26 si trova espresso sulle cellule polmonari di tipo I e II e sui macrofagi alveolari, oltre che nell’endotelio e nel mesotelio pleurico. In particolare, l’alta espressione CD26 sembra essere associata ai danni subiti dalle vie respiratorie/polmoni. In linea con questa osservazione è l’epidemiologia di COVID-19. In Italia, il 13,7% dei decessi per COVID-19 ha presentato la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) come comorbilità principale. Inoltre, il 73,8% e il 33,9% dei pazienti ospedalizzati soffrono rispettivamente di ipertensione e diabete.
Entrambe le condizioni sono caratterizzate da uno stato infiammatorio, che potenzialmente è in grado di indurre una sovra-espressione di DPP4. Infatti, durante le malattie croniche polmonari, come la BPCO e la fibrosi cistica, è stata documentata una maggiore rilevazione della proteina DPP4/CD26 nelle cellule epiteliali alveolari, suggerendo che una maggiore densità del recettore del virus, specialmente nel polmone, potrebbe essere responsabile di un più rapido ingresso del virus nelle cellule umane e di una conseguente più rapida e incontrollabile diffusione del virus[xlvi].
Questa ipotesi è in linea con quella osservata dopo l’infezione da HIV-1, quando l’eccessiva troncatura della chemochina CCL5, esercitata dai linfociti T CD26 positivi, è stata in grado di trasformare la CCL5 in un potente inibitore della chemiotassi monocitaria, permettendo così all’HIV-1 di replicarsi più facilmente[xlvii]. Inoltre, la stretta correlazione tra la densità della superficie cellulare CD26 e la carica virale è stata chiaramente dimostrata nel modello MERS-CoV, dove la maggiore suscettibilità all’infezione è ben correlata con la maggiore densità di CD26 sulle cellule ospiti[xlviii].
Grazie alla sua onnipresente localizzazione, la DPP4/CD26 potrebbe svolgere un ruolo importante nel dialogo tra immunità innata e adattiva, così come tra il sistema immunitario e specifiche funzioni tissutali. Infatti, mentre la DPP4 attiva i linfociti, la frazione proteica espressa sui macrofagi si lega all’adenosina deaminasi (ADA), aumentando il livello del suo substrato adenosina e compromettendo la risposta immunitaria dell’ospite[xlix].
Nel rene, DPP4/CD26, espressa su linfociti T e B, macrofagi e cellule dendritiche, è stata identificata come una molecola costimolatoria che amplifica l’attivazione delle cellule T attraverso il legame con caveolina-1. L’ipotesi di un importante cross-talking patogenetico tra infiammazione e DPP4/CD26 è supportata anche dalla sua elevata espressione in diverse malattie infiammatorie, come la fibrosi cistica e la BPCO, dove sostiene l’ambiente infiammatorio[l].
DPP4 è stato segnalato per svolgere un importante ruolo patogenetico nelle malattie autoimmuni, come l’artrite reumatoide (RA) e l’eritematoso sistemico (LES). È stato ipotizzato che la DPP4/CD26 potrebbe essere il bersaglio di alcune importanti proteine, come il collagene e la fibronectina, che si comportano come autoantigeni.
In linea con questa ipotesi, sono stati trovati alti livelli di anticorpi anti-CD26 in pazienti con RA rispetto a donatori sani[li]. È interessante notare che i linfociti T situati nelle cavità sinoviali esprimono alti livelli di CD26 e sostengono la produzione di chemochine e citochine infiammatorie[lii].
Nei pazienti con asma allergica, i livelli di CD26 sono risultati elevati, suggerendo un ruolo di questa peptidasi anche nella patogenesi di questa malattia allergica[liii]. Infine, nella sclerosi multipla, le cellule T dell’effettore CD26-positive sono significativamente aumentate in tutti i sottotipi di malattia rispetto ai controlli sani, ben correlabili con l’aggressività della malattia[liv].
Oltre alle malattie autoimmuni, la DPP4/CD26 è stata ampiamente studiata nel diabete mellito, nel quale sembra essere implicata nell’omeostasi del glucosio partecipando alla degradazione catalitica del peptide simile al glucagone-1. Gli inibitori DPP4 abbassano i livelli di zucchero nel sangue impedendo la degradazione delle incretine (GLP-1-2 glucagon-like peptide 1-2 e GIP Glucose-dependent insulinotropic Peptide) e aumentando la secrezione di insulina[lv].
L’autofagia è un processo che, controllando lo smaltimento degli organuli danneggiati, gioca ruoli importanti nell’omeostasi cellulare, nello sviluppo, nell’invecchiamento e nella difesa dalle infezioni. Infatti, batteri e virus vengono sequestrati in autofagosomi e poi consegnati ai lisosomi dove vengono distrutti. Infatti, una volta attivata dalle citochine pro-infiammatorie, l’autofagia contribuisce ad eliminare gli agenti infettivi sostenendo la presentazione dell’antigene limitato MHC e regolando negativamente la via infiammatoria IL1-dipendente[lvi].
Purtroppo, la SARS-CoV-2 così come altri batteri e virus possono sovvertire questo processo a proprio vantaggio [67]. Infatti, i Coronavirus codificano otto proteine accessorie (ORF) che sono responsabili di diverse fasi dell’infezione. In particolare, ORF-3a e ORF-8a innescano l’apoptosi, ORF-7a attiva NF-κB, ORF3b upregola l’espressione delle citochine e delle chemochine coinvolte nell’infiammazione, ORF-6 riduce la produzione di interferone, ORF-8b induce la sintesi del DNA cellulare, e ORF- 9b è coinvolto nell’autofagia. Il risultato finale complessivo è il congelamento della risposta immunitaria dell’ospite e l’aumento della replicazione virale[lvii].
Un modo concepibile per controbilanciare gli effetti negativi dell’attivazione dell’asse Coronavirus/DPP4/CD26 è rappresentato dal blocco dei recettori attraverso gli anticorpi monoclonali anti CD26. Il successo degli anticorpi anti-CD26 è particolarmente evidente nell’aGVHD, condizione che imita la tempesta di citochine rilevata nei pazienti affetti da COVID-19[lviii].
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*Accademia di Storia dell’Arte Sanitaria Roma